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25.08.2018

I pubblici ministeri della Procura di Milano hanno concluso delle indagini sul grave infortunio mortale che il 16 gennaio scorso aveva provocato la morte di quattro lavoratori dell’azienda Lamia, Laminatoi Milanesi Nastri, nel quartiere milanese di Greco vicino alla ferrovia.

 

Uccisi dal gas argon, gas più pesante dell’aria, accumulatosi negli spazi confinati dell’azienda. Il fatto è tragicamente avvenuto seguendo - quasi da manuale - tutti i casi precedenti: nel forno era entrato un elettricista addetto alla manutenzione soffocato dalle esalazioni del mortale gas, due colleghi si calano nella fossa per cercare di soccorrere il primo e il terzo, non vedendoli risalire, si cala a sua volta. Muoiono tutti all’istante.

 

La notifica di conclusione delle indagini prelude alla richiesta di rinvio a giudizio per omicidio colposo il legale rappresentante dell’azienda che risulta pure indagata come società in base alla legge 231/2011 sulla responsabilità amministrativa degli enti i cui modelli organizzativi non hanno prevenuto i reati commessi dai vertici nell’interesse aziendale.

 

Dalla ricostruzione fatta dai p.m. si rileva come all’interno dell’azienda Lamina, nel 1986, era stato installato un forno statico a campana alimentato a metano e utilizzava gas inerti, prima con l’azoto e poi con il gas argon. La lavorazione delle lamiere ad alte temperature richiede l’assenza di ossigeno che era stato, per l’appunto, eliminato con un gas inerte come l’argon. Il formo poggiava all’interno di una fossa rettangolare alta poco più di 2 metri e del volume di 55-60 metri cubi, senza ventilazione meccanica.

 

In questa fossa i periti, incaricati dai p.m., hanno accertato che l’aria al piano di calpestio cambiava la percentuale di ossigeno man mano che si scendeva nella fossa raggiungendo, al pavimento, il valore di appena lo 0,2% contro un valore normale del 20,08%. In questa fossa era stato collocato un sensore per misurare l’ossigeno posto all’altezza di 1,1 metro da terra. Questa altezza non consentiva di operare in sicurezza come è accaduto all’elettricista che, probabilmente, accovacciatosi, rendeva di fatto inutile questo sensore che non rispondeva ai criteri di sicurezza.

 

Al datore di lavoro viene addebitato di non aver valutato il rischio di anossia, mancanza di ossigeno, per contaminazione ambientale con l’ argon nel momento in cui l’azienda, nel 1992, aveva sostituito l’azoto con il gas argon. Un gas più pericoloso in quanto dotato di un peso specifico maggiore dell’aria e quindi tendente a stagnare alla base.

 

La mancata valutazione del rischio portava alla mancata predisposizione delle misure atte ad escludere o limitare il rischio compresa la necessità di fornire ai lavoratori una adeguata formazione sull’uso degli autorespiratori. Questi D.P.I., di cui ogni lavoratore deve essere dotato addestrato all’uso, permette di sopravvivere in ambienti privi di ossigeno. A ciò si aggiunga che i lavoratori erano privi di imbraghi di sicurezza che potevano aiutare il soccorso ed il recupero degli operai infortuni. Non era neppure presente un impianto di ventilazione in grado di poter riportare l’ossigeno ai livelli di sicurezza nonché un sistema di erogazione dell’argon che ne evitasse l’accumulo ed il deposito alla base della fossa.

 

Queste, in sintesi, le argomentazioni dei pubblici ministeri che hanno condotto le indagini alle quali ora (quando?) il tribunale dovrà aprire il processo.

 

Non compete, in questa sede, entrare nelle valutazioni della giustizia che, l’esperienza insegna, presenta tempi lunghi che, spesso, nei diversi gradi di giudizio arrivano anche alla prescrizione.

 

Le condanne (se ci saranno) devono essere certe, chiare ed esemplari. Purtroppo anche dopo l’emanazione del DPR 177/2011 sulla normativa per coloro che operano negli spazi confinati questo genere di infortuni si ripetono ciclicamente e tutti con le medesime caratteristiche. Troppe discussioni, argomentazioni, difficoltà applicative, lacci e lacciuoli che pervadono il mondo degli “spazi confinati” e poche azioni tese a favorire le buone prassi, una seria formazione poiché il problema non è l’applicazione formale della legge ma la sua sostanzialità: evitare gli incidenti e gli infortuni negli ambienti e negli spazi confinati.

 

La vera domanda da porci è quella di una seria valutazione del rischio e delle misure tecniche da applicare con una seria, e vera, formazione dei lavoratori. Gli strumenti sono già tutti previsti nel D. Lgs. 81/2008.

 

Quando nel 1992 l’azienda Lamina ha introdotto il gas argon è stata effettuata una nuova valutazione del rischio. In questo caso l’art. 29 del D. Lgs. 81/2008 è chiaro. Al comma 3 si prescrive che “la valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata… in occasione di modifiche del processo di produzione o dell’organizzazione del lavoro”. Vi era tutto il tempo per effettuare una nuova valutazione.

 

Ma non finisce qui. Che fine ha fatto la riunione periodica annuale. Il comma 2 dell’art. 35 del D. Lgs. 81/2008 prescrive che nel corso della riunione il datore di lavoro deve sottoporre all’esame dei partecipanti:

  • Il documento della valutazione dei rischi, ovvero le modifiche e gli aggiornamenti.
  • I criteri di scelta, le caratteristiche tecniche e l’efficacia dei dispositivi di protezione individuale.
  • La formazione dei lavoratori.

Ma dove erano coloro che avrebbero dovuto partecipare alla riunione periodica e sottoscrivere il relativo verbale? Cosa ne sappiamo dell’azione del datore di lavoro ed il RSPP, del medico competente, del Rappresentante dei Lavoratori? Tutte domande che restano nebulose ed inevase.

 

Tornando al caso della Lamina viene da chiedersi se oltre, all’azione giudiziaria obbligatoria per legge non valga anche la pensa di conoscere questi aspetti che costituiscono la comprensione del fenomeno e capire chi ha fatto, o non ha fatto, che cosa? Dalle indagini dovrebbe esserci la possibilità di analizzare gli infortuni con il metodo dell’albero delle cause dal quale emerge come la sequenza degli eventi coinvolgono più fattori.

 

Vi sono alcuni fattori da approfondire. Da un lato è forse ora di smettere di parlare di “cultura della sicurezza” passando a “quale cultura della prevenzione”. Dall’altro lato sarebbe molto utile conoscere i passaggi delle cause di infortunio e delle relazioni ispettive per trarne insegnamenti sui comportamenti, dell’applicazione normativa e, soprattutto, delle omissioni. La lettura delle sentenze per capire, sempre di più e meglio, cosa bisogna fare e non è stato fatto.  Da questo punto di vista l’attività ispettiva può essere utile e valorizzata. Lasciando alla giustizia il compito delle colpe e delle sanzioni, può essere occasione di capire meglio le realtà per modificare ed attuare una seria opera di prevenzione.

 

Parafrasando Mao “colpirne uno per educarne cento” nel campo delle ispezioni non ha funzionato. Forse oltre all’infortunio mortale dove seguono accurate indagini (delle quali spesso non si sa come vanno a finire) le ispezioni riusciranno ad identificare altri due o tre aziende da sanzionare ma, altre 97 la fanno franca e non sono soggette a nessun controllo. Invertire questa tendenza aumentando il numero degli ispettori non è la soluzione o, meglio, si raggiungono risultati modesti ed insignificanti.

 

Serve un controllo sociale diffuso sulla prevenzione che coinvolga tutti i soggetti della sicurezza che, come abbiamo visto nel caso della Lamina, dove erano?

 

Rocco Vitale

Presidente AiFOS, docente diritto del lavoro all’Università di Brescia
 


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Articolo tratto da puntosicuro.it