News

16.10.2023

L’importanza della consapevolezza del rischio nei luoghi di lavoro

Come si può migliorare la prevenzione e ridurre infortuni e malattie professionali? Qual è il grimaldello più efficace? Riflessioni su valutazioni, modelli organizzativi e formazione. A cura di Michele Del Gaudio, ricercatore Inail.

 

In questo periodo, dopo diversi gravi incidenti con vari infortuni mortali che si sono succeduti a distanza di pochi giorni, sono aumentate le riflessioni, anche nel mondo politico, su cosa fare per migliorare la prevenzione di infortuni e malattie professionali.

 

Proprio per continuare a riflettere sulle strategie di prevenzione possibili, riceviamo e pubblichiamo un contributo di Michele Del Gaudio, ricercatore Inail, dal titolo “La consapevolezza del rischio nei luoghi di lavoro”.


 

La consapevolezza del rischio nei luoghi di lavoro

Nel periodo compreso tra gennaio e giugno 2023 si sono rilevate in Italia complessivamente 296.665 denunce di infortunio, il 22,40% in meno rispetto al periodo gennaio-giugno 2022.

Le denunce di infortunio con esito mortale sono state 450, a fronte delle 463 denunce rilevate nell’analogo periodo del 2022 (-2,81%).

Nel periodo gennaio-giugno 2023 le denunce di malattie professionali protocollate sono state 38.042, il 22,38% in più rispetto all’analogo periodo del 2022 (31.085).

 

Il trend sia pure in leggera diminuzione rispetto allo scorso anno, ci fa presumere che anche quest’anno ci saranno più di 900 morti a causa di lavoro.

 

Bisogna sottolineare che i numeri già molto alti degli infortuni mortali potrebbero essere ancora più elevati se si considera che mediamente per un incidente mortale ci sono statisticamente 29 near miss (mancati incidenti) che avrebbero potuto avere lo stesso esito. Questi eventi però non sempre vengono registrati anche se potrebbero contribuire a costruire la consapevolezza del rischio da parte dei soggetti coinvolti: datori di lavoro, RSPP, lavoratori.

 

Come si può combattere questa situazione? Il termine “combattere” con questi numeri è appropriato perché è una vera è propria guerra.

 

Dove si può agire per diminuire gli infortuni? La cronaca ci restituisce ogni giorno casi che “col senno di poi” si sarebbero potuti evitare. Caduta di oggetti, manovre con automezzi, mancata attivazione o rispetto di procedure di sicurezza, esposizione ad ambienti termici severi ecc.

 

Il dibattito politico promette ad ogni incidente portato agli onori della cronaca un rafforzamento delle azioni di prevenzione ma nella realtà poco cambia. Ogni giorno in Italia ci sono mediamente 3 vittime del lavoro e spesso passano inosservate se non citate dal notiziario e pure se citate i titoli sono ormai talmente standardizzati da non attirare più l’attenzione: “operaio muore in cantiere”, “operaia schiacciata da macchina”.

 

Qual è il grimaldello più efficace?

 

Aumento della frequenza dei servizi ispettivi; applicazione di sanzioni; formazione ed informazione più efficaci; incentivi economici alle aziende che investono in sicurezza.

Queste sono normalmente le proposte ma … evidentemente non bastano. Perché non funzionano?

 

Se si sposta il punto di vista dalla parte del datore di lavoro, “le regole” che potremmo associare alla normativa sulla sicurezza e in primis al testo unico 81/08 vengono vissute come un adempimento burocratico.

 

Il datore di lavoro deve svolgere il suo ruolo di valutatore art. 28, peraltro non delegabile, per produrre il documento di valutazione dei rischi DVR. Questa funzione è affidata al datore di lavoro che meglio di chiunque altro conosce il processo produttivo ed è quindi in grado di evidenziare i rischi. Il datore di lavoro può farsi affiancare da un consulente a cui affida la funzione di Responsabile del servizio di prevenzione e protezione soprattutto quando l’impresa è di grosse dimensioni o, come nei casi in cui il datore di lavoro è un dirigente di un Ente pubblico o un dirigente scolastico, con una preparazione giuridico-economica e quindi totalmente inadeguata a valutare i rischi presenti nel suo ufficio.

 

Se la valutazione dei rischi e quindi la produzione di un DVR (documento di valutazione dei rischi) sono realizzati solo perché è richiesto dalla legge probabilmente si fa fatica a capirne l’utilità e si realizza facilmente un inutile strumento.

Strumento? Sì, perché il DVR è uno strumento di prevenzione.

 

L’art. 28 del DL 81/08 ne cita i contenuti minimi:

  • una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa
  • l’indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate e dei dispositivi di protezione individuali adottati, a seguito della valutazione
  • il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza
  • l’individuazione delle procedure per l’attuazione delle misure da realizzare, nonché dei ruoli (dotati di competenze e poteri necessari) dell’organizzazione aziendale che vi debbono provvedere
  • le figure della sicurezza nominate dal Datore di Lavoro.

 

Basterebbero poche pagine, ma spesso troviamo inutili premesse estrapolate dai testi di legge o altre disquisizioni su argomenti vari che appesantiscono il documento mentre l’obiettivo principale è trovare i rischi e cercare di eliminarli o ridurli. Il DVR infatti è un documento che consente di scansire il luogo di lavoro cercando ciò che normalmente non percepiamo.

 

L’art. 30 del DL 81/08 suggerisce anche la possibilità di utilizzare modelli di organizzazione e di gestione che, se correttamente adottati, possono esimere della responsabilità amministrativa ai sensi decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, ma soprattutto permettono di registrare le azioni e quindi di tenere sotto controllo le criticità e le scadenze a cui ottemperare.

 

Anche le sanzioni non sembrano sortire effetto sperato, nonostante quelle economiche possano rappresentare per le piccole aziende un grosso problema.

 

Ma il lavoratore? Se ha ricevuto la corretta formazione ed ha ricevuto i DPI assume anche esso delle responsabilità ai sensi dell’art. 20 del DL 81/08.

 

Perché non si riesce a far capire ai lavoratori che seguire le “regole” significa anche essere professionali?

 

Anche noi se pensiamo ad un lavoratore dell’edilizia qual è la figura ci viene in mente? Probabilmente un operaio che indossa vestiario comune, che calza grossi scarponi, che appende l’elmetto da qualche parte. Se invece osservando un cantiere vediamo un lavoratore che indossa, scarpe antinfortunistiche, tuta, elmetto, guanti e occhiali restiamo spiazzati. Analogamente in agricoltura abbiamo una visione bucolica del contadino e che nell’uso dei mezzi meccanici non segue regole importanti quale innestare il roll bar, allacciare la cintura e magari trasporta passeggeri sul parafango del trattore. Il vestiario è spesso costituito da vecchi abiti che non essendo aderenti può provocare impigliamenti negli organi in movimento.

 

Perché il lavoratore, anche più sprovveduto, indossa sempre le scarpe antinfortunistiche? Non lo fanno solo gli operai dell’industria ma anche il corriere che consegna i pacchi a casa nostra e l’addetto della grande distruzione. Forse per questo dispositivo personale i lavoratori hanno percepito l’utilità, magari anche grazie a qualche contusione passata, mentre per il mancato uso degli altri dispositivi non sempre ci può essere una seconda possibilità e quindi non c’è tempo di fare esperienza.

 

Ma la ricerca della soluzione per ridurre gli infortuni può essere limitata solo a datore di lavoro e lavoratore? Molti infortuni anche gravi sono legati ad aspetti che possono sembrare non direttamente collegati. La necessità, ad esempio, di svolgere il lavoro rapidamente per non interrompere un ciclo produttivo o un servizio oppure per ottimizzare economicamente la giornata di lavoro è sicuramente un aspetto significativo. Montare un’impalcatura agganciando l’imbracatura ad ogni spostamento rallenta il lavoro; effettuare la manutenzione potendo contare solo su tempi brevi fa perdere di lucidità ed in qualche caso costringe a non rispettare le regole.

 

Il concetto di “consapevolezza del rischio” deve essere quindi allargato. La sicurezza si ottiene anche agendo sui costi perché una corsa al “ribasso” impone tempi più stretti di realizzazione. Seguire le regole benché possa sembrare “ridondante” serve ad evitare che si verifichi anche l’evento straordinario.

 

La riduzione degli infortuni dovrebbe essere percepita, anche dall’opinione pubblica, come un obiettivo da perseguire perché ha un costo sociale. Il servizio sanitario deve prestare le necessarie cure mediche, ci sono rendite economiche da sostenere e ci sono mancati guadagni da parte degli imprenditori e dei lavoratori.

 

La formazione a partire dalle scuole primarie è uno strumento utile ma anch’essa non sembra sortire l’effetto sperato ed anche la formazione periodica dei lavoratori, se mal progettata, viene percepita dai lavoratori solo in termini di tempo occupato che di miglioramento delle conoscenze. “A che ora finiamo?” “possiamo finire un poco prima?” sono le domande che ogni formatore si è sentito fare all’inizio dei momenti formativi.

 

E se nei percorsi formativi si introducesse il modulo “esiti degli infortuni”? In altre occasioni, come la prevenzione nella sicurezza stradale sono stati utilizzati argomenti scioccanti per attirare l’attenzione dell’ascoltatore che forse restano maggiormente nella memoria. Cosa è successo a chi è caduto da un ponteggio, ha utilizzato macchine prive di protezioni, si è ribaltato con un trattore?

 

Probabilmente la riduzione degli infortuni si potrà ottenere solo se aumenta la “consapevolezza dei rischi” da parte dei lavoratori, datori di lavoro ma anche di tutti gli altri soggetti che possono favorire l’insicurezza perché organizzano il lavoro decidendone i costi, i tempi di realizzazione ecc.

 

 

Michele del Gaudio

Primo ricercatore INAIL UOT CVR Avellino

 


Creative Commons License Licenza Creative Commons