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29.06.2023

Considerazioni sul documento di valutazione dei rischi

Riflessioni e considerazioni, a quasi trent’anni dal D.Lgs. 626/1994, sulla valutazione dei rischi che rappresenta il fulcro dell’intera organizzazione aziendale in materia di salute e sicurezza.

 

 

È sempre importante sottolineare, e lo farà anche il contributo che presentiamo oggi, che la valutazione dei rischi è il “centro focale di tutta l'organizzazione aziendale in materia di salute e sicurezza”. Per cui è necessario fare un “passo avanti verso una più semplice e più efficace gestione del documento di valutazione dei rischi, che non deve essere più un documento riservato alla sola dirigenza aziendale e ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, ma che invece deve diventare uno strumento di condivisione e comunicazione fra azienda e lavoratori”.

 

A ricordarlo fornendo utili informazioni sulle caratteristiche e la strutturazione di un documento di valutazione dei rischi (DVR) è un lungo contributo – che abbiamo diviso in due parti – scritto da Alessandro Mazzeranghi e intitolato “A quasi trent'anni di distanza: considerazioni sul documento di valutazione dei rischi”.

 

Se nella prima parte viene presentata la genesi e l’importanza di un documento che sia anche “fruibile” da tutti gli interessati, nella seconda parte, che sarà pubblicata nei prossimi giorni, l’autore si sofferma anche su una possibile strutturazione del DVR.


 

A quasi trent'anni di distanza: considerazioni sul documento di valutazione dei rischi – prima parte

 

Non sono ancora trent'anni da quando parliamo di documento di valutazione dei rischi ma, se la legge non è mutata nella sostanza, sono diverse le condizioni al contorno, cioè le condizioni di sicurezza delle aziende, ed è quindi piuttosto inopportuno che i giudizi sui documenti di valutazione dei rischi siano espressi negli stessi termini utilizzati negli ultimi anni del secolo scorso

 

Se consideriamo la direttiva comunitaria 391 del 1989, però, gli anni trascorsi sono più di trenta: è proprio in quella direttiva che si delineano le prime considerazioni e idee sulla valutazione dei rischi nei luoghi di lavoro, o se preferite su quello che in gergo chiamiamo DVR. L'entrata in vigore nei vari stati nazionali avverrà poi intorno alla metà degli anni '90, sei anni dopo la direttiva originaria, e nel nostro caso particolare praticamente all'inizio del 1996.

 

A mio modesto avviso, e precisando di non aver partecipato in alcuna maniera alla stesura del decreto legislativo 626 del 1994, il documento di valutazione dei rischi all'epoca era una sorta di documento di valutazione della conformità legislativa, ovvero uno strumento per individuare i punti deboli del sistema di sicurezza aziendale - che all'epoca era appena abbozzato anche nelle migliori aziende - per poterli risolvere, preferibilmente con interventi di tipo tecnico volti, se non a eliminare la fonte di rischio o di pericolo, almeno a contenere o eliminare il rischio che ne conseguiva. È chiaro che in tutti questi anni tutte le aziende - con eccezione di poche e assai banditesche realtà - hanno comunque provveduto a effettuare una sorta di bonifica del rischio al loro interno, in modo tale che tutte o quasi tutte le misure di riduzione, di controllo o di eliminazione del pericolo fossero attuate.

 

Quindi, se nel 1996 ci preoccupavamo di situazioni assolutamente incontrollate e anche poco conosciute dalle stesse persone che operavano in azienda, oggi ci troviamo a confrontarci con condizioni che si possono ben ricondurre a un rischio che dovremmo definire "residuo", ossia un rischio che esiste ma che non può essere in alcun modo ulteriormente ridotto ed eliminato tramite misure tecniche, cioè misure che non comportano una concreta collaborazione della componente umana. È vero che poi sul concetto di rischio residuo molti giocano, cercando di far passare per ineliminabili rischi che invece sarebbero effettivamente eliminabili o riducibili con interventi tecnici, e senza creare problemi reali al funzionamento dell'azienda, fatta eccezione per i costi dovuti agli interventi stessi. Però considero questo aspetto abbastanza marginale, almeno nelle aziende di una certa dimensione e che hanno a cuore il proseguimento sereno del lavoro senza correre il rischio che i legali rappresentanti possano essere indagati o che l'attività sia sospesa ai sensi del decreto legislativo 231 del 2001, che prevede anche questa possibilità come elemento di penalizzazione della struttura aziendale inadempiente in materia di salute e sicurezza.

 

Questo a mio avviso comporterebbe o dovrebbe comportare una revisione del nostro modo di fare il documento di valutazione dei rischi, che nel decreto legislativo 81 del 2008 purtroppo viene ancora descritto come nel 1996, o meglio nel 1994: come uno strumento che va a ricercare i pericoli e da questi poi deduce i rischi, e che riguarda principalmente le misure tecniche, anche se non tralascia del tutto quelle organizzative o procedurali operative, che potrebbero e dovrebbero aiutare comunque a gestire nel migliore dei modi i rischi residui. Si tratta dunque di un decreto focalizzato su elementi antecedenti l'attuale situazione industriale, per cui ritengo che ri-focalizzare l'attività di valutazione dei rischi e renderla al tempo stesso più snella e più utile sia non tanto una semplice opportunità, ma addirittura una necessità.

 

Perché dovrei dimostrare su un documento scritto che una determinata soluzione di sicurezza è idonea a prevenire completamente un rischio esistente quando la soluzione, se tecnica, mostra già la propria validità venendo osservata direttamente nell'azienda che la mette in atto? A me interessa piuttosto dimostrare che quelli che ho deciso di battezzare come rischi "residui" - e qui sarebbe interessante dimostrare che effettivamente lo siano - sono comunque controllabili con normali comportamenti da parte dei lavoratori, tali da non diminuire l'efficienza lavorativa o da non creare situazioni di disagio che inducano a non rispettare le regole stabilite. È altresì importante che i suddetti comportamenti siano ben definiti tramite istruzioni o divieti, e che il non rispetto di essi non porti nessuna utilità pratica al lavoratore, che quindi non rispettandoli andrebbe a eseguire azioni che rientrano nel campo delle azioni abnormi, che - come è noto - non sono fra quelle che possono essere considerate cause ragionevoli e prevedibili di un infortunio o di una malattia professionale. Inoltre, essendo inutili o forse addirittura dannose per l'attività lavorativa, tali azioni non possono essere attuate senza una precisa volontà del lavoratore, che sicuramente non intende creare un danno a se stesso, ma che vuole fare qualcosa che non è consono con la sua mansione.

 

Quindi secondo me la valutazione dei rischi, data per acquisita una completa verifica della conformità legislativa, che è più una questione di sostanza che di dimostrazione scritta - e per "sostanza" intendo qualcosa di fisico, visibile, documentabile, riscontrabile - si deve concentrare sul comportamento delle persone, come emerge anche da quanto ammesso dalla stessa INAIL, che afferma che una percentuale fra il 70 e l’80% degli infortuni ha fra le cause il comportamento - ovvero l'errore - umano. Perché questo accada, e perché non riusciamo a ridurre questa percentuale, ora  mi interessa sino a un certo punto, in quanto cerco di concentrarmi sull'aspetto di come realizzare il documento di valutazione dei rischi, che secondo me è fondamentale per la gestione della salute e sicurezza sul lavoro, perché è lì che si devono identificare chiaramente sia i rischi da comunicare ai lavoratori, sia le misure da adottare per tenere sotto controllo questi rischi; è la fonte di tutte le procedure, dei mansionari, delle istruzioni operative, della formazione e dell'informazione dei lavoratori, e tutto ciò ne deve discendere in modo armonico e ben correlato, senza aggiungere o togliere nulla di quello che è presente nel documento di partenza, perché se iniziamo a sviluppare regole, istruzioni, raccomandazioni che non sono fra loro coerenti, finiamo col creare non solo confusione, ma anche condizioni di rischio reali, perché poi a quel punto uno (un lavoratore, un preposto, un visitatore...) si domanda: "Ma quale regola devo seguire se ne ho tre che non dicono la stessa cosa?"

 

Dunque la valutazione dei rischi intesa come centro focale di tutta l'organizzazione aziendale in materia di salute e sicurezza - e per questo una valutazione dei rischi che non è rivolta all'esterno, a dimostrare quanto siamo bravi a qualcuno che ci viene a visitare, auditare o ispezionare, ma che invece è destinata all'interno, cioè alla guida di tutti coloro che sono interessati alla sicurezza e alla salute del nostro ambiente lavorativo, anche se vengono solo per una visita scolastica - andrà somministrata alle persone per le parti di loro interesse, che devono essere chiare, sintetiche, facilmente comprensibili e diffuse nei modi e nelle forme che garantiscano il loro recepimento da parte di tutti i destinatari.

 

Questo ragionamento sembra ovvio, e ben scritto nel decreto legislativo 81, ma non è così semplice da realizzare perché la questione della verifica dell'avvenuta comunicazione e della comprensione da parte dei soggetti riceventi non è ancora stata del tutto risolta anche a livello di formazione e informazione dei lavoratori, per non parlare dei visitatori. Quindi è importante, a mio avviso, specificare questo aspetto: come realizzare la valutazione dei rischi proprio dal punto di vista documentale per renderla fruibile a tutti gli interessati, onde evitare che tale documento sia leggibile solo da parte di persone per così dire “iniziate”, cioè istruite sulle tematiche di salute e sicurezza a un livello elevato, come potrebbe essere quello di un responsabile del servizio prevenzione e protezione oppure di un ispettore dell'ASL. È invece doveroso realizzare un documento che sia comprensibile a qualunque persona, a partire dal livello di istruzione minimo che ci possiamo aspettare da chi accede all'interno del nostro ambiente di lavoro. Se poi qualcuno mi parla del problema delle barriere linguistiche, pur non volendo entrare nell'argomento confermo che ha assolutamente ragione: anche questa è una sfida.

 

Caratteristiche base del DVR

Oltre a quanto già detto in teoria sulla semplicità, sulla leggibilità e sui contenuti del DVR, credo che si debba capire quali possano essere le strade per raggiungere questo risultato, specie nei confronti della comunicazione ai lavoratori. Se io fossi un addetto a una mansione operativa, che lavora in uno o più luoghi della fabbrica, per cui devo affrontare sia i rischi tipici di quei luoghi, intesi come entità fisiche, sia i rischi propri del lavoro, vorrei che in ogni luogo dove opero fossero indicati tutti gli elementi di rischio, inclusi quelli della mia mansione, in modo da poterli consultare in qualunque momento, evitando di dover ricorrere alla memoria (o a istruzioni conservate altrove ecc.). Per esempio, se io opero con un carrello elevatore per movimentare materie prime da un magazzino alla produzione, dovrò conoscere: i rischi per me e per i colleghi legati all’utilizzo del carrello; i rischi legati alle interferenze fra carrello e strutture e materiali presenti nel magazzino, incluso quello di incidente con altri mezzi; i rischi tipici del magazzino (caduta di materiali dall’alto?); eventuali rischi legati a mie attività accessorie (movimentazione manuale dei carichi? circolazione a piedi in spazi promiscui?). Naturalmente varrà lo stesso per il reparto produttivo. Ci dovranno dunque essere due documenti ben visibili, uno in magazzino e uno in reparto, ognuno dei quali conterrà le informazioni generali sui rischi della zona, più quelle specifiche delle mansioni operative (tutte) che vi si svolgono: per esempio per il magazzino prima i rischi del luogo e delle attività generiche (tipo percorrere a piedi le vie pedonali), poi i rischi specifici del carrellista, dell’addetto al controllo qualità, del manutentore meccanico, del manutentore elettrico ecc.

E per ogni parte/zona cosa dovrebbe contenere il documento? Sicuramente i rischi residui (sia generici della zona che tipici delle singole mansioni) e le misure comportamentali (inclusi i DPI) tramite cui tenerli sotto controllo; sicuramente una valutazione di ogni rischio residuo (per evidenziare quelli di entità maggiore in modo che il lavoratore interessato si focalizzi di più sulle relative misure di controllo). Ribadisco che per me è importante che il lavoratore sia puntualmente informato dell’entità di ogni singolo rischio a cui è esposto, perché anche questa è una misura di prevenzione!

 

 

Alessandro Mazzeranghi

 

 

La seconda parte del contributo sarà pubblicata nei prossimi giorni

 


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